mercoledì 16 febbraio 2011

DAL DIARIO DI SARA


Riporto di seguito un estratto del libro, dal diario di Sara che annota, insieme a vicende storiche come Cefalonia, la morte del fratello partigiano, le difficoltà di ogni giorno, il suo essere sposata ad un uomo che non ama, l'incontro con un soldato tedesco. E' l'universo interiore di Sara, rosa dai dubbi, dalle paure e dalle incertezze. Può parlare con un soldato tedesco, dopo che suo fratello è stato ucciso da loro? Può davvero fare ciò che vuole, "anche" se è una donna, come afferma l'indipendente zia Matilde? Usa termini come "todeschi" perchè pur scrivendo in italiano vive in un luogo in cui si parla dialetto.

Castelfondo, 22 agosto 1943.

Ieri mio fratello Renzo è morto. È già il terzo

anno di guerra e ancora non se ne intravede la fine,

anche se Mussolini ha perso tutto a luglio. Sono sola

in casa, ho deciso di cominciare a scrivere un diario

per avere almeno l’illusione di parlare con qualcuno,

perché fuori e dentro di me c’è davvero troppa

solitudine, ma d’altra parte la disperazione è talmente

forte a casa dei miei che non sono riuscita a

trattenermi tutta la notte. Avevo bisogno di pensare

senza gli sguardi assenti di mio padre e di mia madre,

ancora seduti al tavolo da cucina con il telegramma in

mano. Credo siano rimasti in quella posizione fin da

questa mattina, quando il postino ha bussato piano

alla porta e con aria afflitta ha consegnato l’orrendo

messaggio. Quanto mi rincresce non essere stata io a

ricevere per prima la notizia, per preparare un po’ i

genitori. A quell’ora passo ogni giorno a salutarli, ma

il destino a quanto pare si diverte anche nei momenti

più brutti: ero già uscita di casa per andare alla

bottega, quando mi sono accorta di aver dimenticato

le tessere annonarie e sono dovuta tornare indietro.

Quel momento è stato sufficiente al postino per

bussare e trovare mio padre al posto mio. “Cosa vi



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porto oggi, cioccolato o fragole?” ho gridato io

allegramente prima di entrare in cucina. È un nostro

modo di scherzare, un detto nato per gioco poiché

qui da noi, praticamente, non esistono né fragole né

cioccolato, ed anzi al mercato è un miracolo trovare il

necessario, come lo zucchero. Non ho avuto risposta.

Sorpresa, ho chiuso la porta alle mie spalle e sono

entrata. Li ho trovati immobili, seduti al tavolo come

statue. “Renzo!” mi è scappato appena ho scorto il

telegramma, aperto e ripiegato con cura, posato sulla

tovaglia come una reliquia. Sentendo quel nome si

sono rianimati, quasi svegliati da un sonno fatto

d’incubi, guardandomi. Allora ho letto il messaggio,

poche righe scritte da uno dei suoi compagni che

c’informava della morte di “Raoul” (era questo il

nome di battaglia di mio fratello, preso a prestito dai

racconti della zia Matilde quand’era in Sudamerica,

dove Raoul è un nome molto diffuso) e nessun’altra

informazione. Il timbro postale era di Belluno, ma è

impossibile sapere se Renzo è morto in quella zona.

Probabilmente i partigiani hanno dato incarico a

qualche persona fidata della città di avvertirci e

spedire da lì un telegramma; forse sono molto più

vicini e questo era l’unico modo per far giungere la

notizia senza rischiare. Ad ogni modo poco importa



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ormai. Renzo è morto ieri. È morto in battaglia sotto

i colpi di uno schioppo todesco, chissà se l’hanno

seppellito. Non avremo una tomba su cui piangere, il

suo corpo non riposerà tra queste montagne.

Maledetti, maledetti todeschi! Vi odio! L’unica

consolazione è saperlo morto per la libertà, mentre in

nome dei suoi ideali sacrificava i suoi vent’anni. Per

tutto il giorno a casa dei miei è stato un via vai di

gente, ma di famiglie che hanno altri figli partigiani,

non certo di chi, invece, ha deciso di restare fedele al

Duce. Con mia sorella Susanna ho accolto tutti,

ascoltato le loro inutili parole di conforto, mentre i

miei per tutto il tempo non hanno dato alcun segno di

partecipazione. È arrivato anche il dottore, mi ha dato

una polverina per calmarli in caso di necessità, ma

sono come morti anche se continuano a respirare. Ad

un certo punto nel pomeriggio la Susanna ha preso a

tremare senza riuscire a controllarsi, l’ho mandata a

stendersi mentre restavo con la zia Matilde.

“Andate, per l’amor di Dio! C’è già troppo dolore

in questa casa” ha detto ad alcune donne che, in un

angolo, recitavano il rosario. “Vado a cercare il

parroco, farò dire una messa domani”. Solamente in



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quel momento, dagli occhi di mia madre sono

sgorgate lagrime irrefrenabili, mio padre ha

appoggiato la testa tra le mani singhiozzando. Allora

abbiamo pianto tutti, per non so quanto tempo, forse

ore che parevano giorni. Ho aspettato il ritorno della

zia e sono tornata a casa, sola, sotto il peso di questo

fardello e ho lasciato sfogare la disperazione di questa

triste giornata, lontana dagli occhi già troppo provati

dei miei. Chissà dov’è Renzo, in questo momento.

Vedrà ancora, in qualche luogo misterioso, le stelle

che vedo io? Non riesco, non posso dirgli addio.



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Castelfondo, 23 agosto 1943.

Stamattina presto c’è stata la messa per Renzo.

Ecco, solo a scriverlo piango di nuovo. Forse non ho

mai smesso da ieri. Ho male agli occhi, nello specchio

li ho visti rossi come braci.

Il signor curato, don Giuseppe, ha acconsentito a

patto di celebrare la messa il mattino di buon’ora,

perché Renzo era un partigiano e tutti sanno che lui,

invece, sta apertamente dalla parte di quel poco di

fascismo che è rimasto. Ieri la zia ci ha litigato e

praticamente l’ha minacciato di morte se non si fosse

deciso a rendere l’ultimo saluto a Renzo. Scrivo

ultimo saluto per modo di dire, perché un vero

funerale, con la bara i fiori e la processione non c’è

stato, né probabilmente ci sarà mai. La messa almeno

ha conferito dignità a questa situazione, ha fatto

sembrare più “regolare” la morte di un ragazzo cui

nemmeno il prete del suo paese, lo stesso che l’ ha

battezzato, voleva rivolgere una preghiera. Ho

pensato che in un certo senso, almeno è stato

risparmiato ai miei genitori, alla Susanna e a me di

veder calare il suo corpo nella terra. La Susanna, che



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ha appena quindici anni, in questa circostanza si è

dimostrata incredibilmente coraggiosa, ha trattenuto

le lagrime fino a quando, tornate a casa, non l’ho

sentita piangere in camera sua; siamo riuscite

abbastanza bene ad essere forti per i nostri genitori.

Per la prima volta ho avuto la sensazione che i ruoli si

fossero capovolti e fosse compito di noi figlie

proteggere mamma e papà.

Una volta sole, ho chiesto alla zia del litigio.

Sembra che ieri, dopo aver parlato in canonica della

celebrazione per mio fratello, don Giuseppe l’abbia

messa alla porta bruscamente, dicendole che non

aveva intenzione di onorare un assassino. So per

certo, perché lui stesso me l’aveva confidato, che

Renzo ha ucciso degli uomini nel corso di diverse

imboscate, ma lo stesso si può dire dei todeschi e dei

fascisti, che tra l’altro hanno ammazzato e torturato

per il solo gusto di farlo. Infine la zia, senza curarsi

della gente che passava per la piazza, ha dato del

vigliacco al signor curato, accusandolo di continuare a

servire le Camicie Nere e il Duce, ormai quasi senza

potere. Don Giuseppe l’ha subito strattonata verso la

canonica per evitare una scenata davanti ai curiosi che

già iniziavano a radunarsi sul sagrato delle chiesa ma



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anche così oggi il fatto era già sulla bocca di tutti

perché le grida, pur con il portone della canonica

chiuso, si sentivano per vie e androne delle case

vicine. Rabbioso, il signor curato ha cercato di

calmarsi un poco, rivolgendosi alla zia ha detto di

capire quel suo dar di matto in un momento simile e

di esser disposto a perdonarla, ma la Matilde ha

gridato ancora più forte e urlava di sapere benissimo

che cosa stava dicendo e che era lui quello senza

timor di Dio, pauroso di dar nell’occhio agli assassini

fascisti del paese.

Poi, avvicinandosi al parroco impaurito da quelle

grida e preoccupato delle conseguenze, la zia gli ha

intimato di stare molto attento, da quel momento in

avanti, se per caso fosse rimasto dell’idea di non dir

messa per Renzo. Sentendo queste parole il signor

parroco alla fine ha ceduto, ma ha voluto la

celebrazione la mattina presto, quando per le strade

ancora non c’è nessuno e gli unici svegli sono i

contadini che lavorano chiusi nelle stalle.

Così stamattina siamo andati in chiesa verso le

cinque, senza incontrare un’anima cui dire buondì; il

cielo con le sue nuvole scure di acqua pareva

partecipare almeno lui al nostro dolore.



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Poi tutto si è svolto in fretta, ad aiutare il signor

curato al posto dei cherichetti c’era la perpetua

sordomuta, unica testimone di una messa clandestina

che non potrà mai raccontare; ho visto che don

Giuseppe non guardava mai la zia negli occhi.

Adesso che tutto è finito, ripenso alla minaccia

della zia pronunciata in canonica. Sarà stato solo un

modo per convincere il signor curato o no? Sono

troppo avvilita e stanca per pensarci troppo, voglio

solo dormire e dimenticare, almeno per un po’.



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Castelfondo, 24 agosto 1943 (mattino).

Questa notte ho dormito poco. Continuavo a

pensare a Renzo, a lui bambino e ai nostri giochi

d’infanzia, mi tornava alla memoria ogni momento

passato insieme e pensavo che adesso non c’è più.

Non c’è più. Non lo vedrò mai più. Vivo ogni giorno

sentendomi immersa in un mondo in cui le voci degli

altri, i rumori, rimbombano nel silenzio in cui mi sono

ritirata.

Ho ripensato a quel giorno, da bambini, quando

mia madre aveva confezionato dei vestiti nuovi per

me e lui (la Susanna ancora non c’era) per l’inizio

dell’anno scolastico. Il mio era marrone a quadretti,

con una cintura in vita, completato da un nastro

bianco da appuntare tra i capelli con un tocco di

civetteria. Per mio fratello la mamma aveva cucito dei

calzoni neri abbinati ad una casacca dello stesso

colore, simile all’abito del signor maestro. Eravamo

felici. La nostra famiglia non conosceva la miseria in

cui viveva tanta gente del paese grazie al lavoro di mio

padre che aveva ereditato un forno per fare il pane da

suo nonno; tuttavia non eravamo certo ricchi e certi

sfarzi erano un lusso anche per noi, perciò quel dono



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entusiasmò noi bambini, che saltavamo per il

corridoio sfoggiando i nostri abiti nuovi. Rivedo ogni

cosa come fosse accaduta solo ieri: mio padre davanti

al cavalletto della sua macchina fotografica, la prima a

giungere in paese e forse in valle (poi sostituita da una

Leica) che richiama me e mio fratello davanti

all’obiettivo, che grida “Violante!” a mia madre, che

non ha mai amato molto farsi fotografare. Di quel

giorno rimane una fotografia che conservo, con molte

altre, nel cassettone del salotto. Non ho avuto cuore

di cercarla, però, so che farebbe ancora più male.

Rammento che, dopo aver scattato

quell’immagine, eravamo corsi fuori, noncuranti delle

grida di protesta della mamma, per giocare con gli altri

bambini che già ci aspettavano. Al mio turno di

contare a nascondino, avevo spiato per capire dove

scovare i miei amici ed in quel momento avevo visto

Renzo, con il suo vestito nuovo, appollaiato sui rami

di un vecchio melo, mezzo spaccato dai fulmini, che

però a fine estate dava ancora dei piccoli frutti arcigni.

A conta finita, nella foga di scendere per fare tana era

saltato dall’albero ed era rimasto a terra immobile.

Tutti noi bambini eravamo corsi da lui, che piangeva.

Gli domandai se si era fatto male da qualche parte.



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Lui arrabbiato rispose di no, mostrandomi uno

strappo nella manica della giubba e minacciandomi se

mi fossi azzardata a deriderlo o a raccontare a

qualcheduno l’accaduto. Risi per davvero, perché mi

minacciava ed era più piccolo di me di tre anni.

Preoccupata per il dispiacere che avremmo causato

alla mamma, pensai di far ricucire lo strappo alla

Matilde, che pur odiando quei lavori che chiamava

“da sartine” avrebbe di sicuro mantenuto il segreto

sulla marachella di Renzo. Così ci avviammo verso la

casa della zia; di tanto in tanto scorgevo con la coda

dell’occhio mio fratello che si asciugava una lagrima,

poi guardava verso di me per esser certo che non

l’avessi visto. Camminavamo in silenzio e quando lui

vedeva un mio accenno di riso, subito alzava il pugno

per ricordarmi la minaccia. Alla fine lo strappo fu

sistemato e la mamma non si accorse di nulla oppure

se ne accorse ma, forse divertita dalla rabbia e dalla

disperazione sul viso di Renzo, decise di lasciar

perdere.

Anche in seguito, diventati più grandi, ogni volta

che si trovava in qualche pasticcio e io lo scoprivo,

cercava di intimorirmi in questo modo. E quando,

dopo una licenza a casa da soldato, mi confidò la sua



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intenzione di non presentarsi più al fronte e diventare

partigiano, disse scherzando:

“Voglio dirlo io agli altri, quando sarà il momento

giusto. Se scopro che parli per prima, ti dò uno di

questi!” e chiuse la mano a pugno fingendo di

colpirmi.

Ed ora, vorrei sentire di nuovo quelle minacce che

tanto mi facevano sorridere. La pendola segna le otto,

mia suocera Lucia sarà fuori dalla grazia di Dio per

aver sgobbato tutta sola nella stalla; non è stata capace

neppure di dire una parola di cordoglio. Vorrei tanto

rimanere a letto per sempre, non so come riuscirò ad

arrivare in fondo a questa giornata.

Castelfondo, 24 agosto1943 (sera).

Sembra che da questa mattina siano passati secoli.

A casa dei miei ho trovato la Susanna con la zia

Matilde e mia cugina Maria. Papà se n’è andato di

buon’ora a tagliare legna, la mamma si occupava delle

faccende. Grazie a Dio sono almeno usciti dal torpore

dei primi momenti, ora tentano in ogni modo di



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impegnarsi in qualcosa per non pensare alla fine di

Renzo, anche se è impossibile.

Approfittando di un momento in cui la mamma

era scesa in cantina, la zia ha preso a sbraitare sulle

colpe del regime, mentre la Maria cercava inutilmente

di calmarla. Dà la colpa a Mussolini della morte di

mio fratello, di essersi alleato con quella “canaglia

todesca”, di aver iniziato la guerra che ha fatto

“crepare tanti giovani in Albania, in Russia e fa

nascondere sui monti quelli che non hanno nel sangue

quell’ideologia da macellai”. La Maria la supplicava

ogni minuto di parlare piano e di piantarla lì con quei

discorsi di politica per pensare di più alla buon’anima

di Renzo e alla perdita subita da tutti noi, ma non si

può far tacere la zia. Si è alzata in piedi, camminando

avanti e indietro per la stanza, gesticolando

nervosamente con le mani mentre parlava.

Stava proprio dicendo che almeno Renzo è morto

per la libertà, forse da solo e lontano ma libero di

corpo e di spirito, non come tanti altri di questi tempi,

quando mia madre è tornata su con delle cipolle in

mano e l’ ha guardata perché sapeva che quelle parole

erano anche per lei e per mio padre. La zia prima ne

ha sostenuto lo sguardo per farle capire che aveva



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proprio sentito giusto, poi, dispiaciuta per averla fatta

restar male in un momento del genere, non si è

scusata, ma le ha fatto un gesto con la mano come a

dire di non farci troppo caso. La mamma ha sorriso,

per un breve attimo, per la prima volta da quando ha

saputo della morte di Renzo.

Pur essendo sorelle, la mamma e la zia hanno ben

poco in comune. L’ho capito, anni fa, per un episodio

particolare e grazie alla discussione che ne seguì.

Un giorno al catechismo il signor curato narrò a

noi bambini le vicende di Abramo e dei suoi figli,

concepiti con donne diverse. Il fatto mi sconvolse ma,

per paura di chiedere a don Giuseppe, famoso tra noi

piccoli soprattutto per le punizioni corporali che

infliggeva a chi non sapeva a memoria gli

insegnamenti del Vangelo o non aveva studiato un

passo della Bibbia, preferii domandare a mio padre

una volta giunta a casa. Gli chiesi se, per caso, nella

Bibbia ci fosse qualche riferimento di tali oscenità

compiute da donne che magari vivevano con due o

più mariti. Avvampò, divenne rosso come un tizzone

e rispose imbarazzato che non ripetessi mai più una

cosa simile.



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Quella sera, prima di addormentarmi, lo sentii

discutere con mia madre. Lei ricamava, non ho mai

capito se per vera passione o per abitudine, lui leggeva

“La Domenica del Corriere” alla luce della lanterna ad

olio, sfogliando rabbiosamente le pagine. Ne sentivo il

fruscio dalla mia cameretta, ad un certo punto strappò

per sbaglio un foglio, cosa che lo fece arrabbiare

ancora di più. Allora chiuse il giornale e riferì a mia

madre i quesiti vergognosi di cui avevo parlato, poi

sbottò, disse di esser certo che la colpa era tutta della

Matilde. La mamma, meravigliata, rispose di non

capire che cosa c’entrasse sua sorella con le mie

domande. Dalla mia stanza lo sentii ribattere che la

Matilde era testarda, senza ritegno, una che si

comportava sempre come voleva, una donna che

praticamente viveva come un uomo e che per questo

doveva avermi riempito la testa di idee malsane su

quello che le donne potevano fare.

In seguito, stanca delle mie domande nate dopo

aver ascoltato quei discorsi, la mamma mi raccontò la

storia della Matilde. Nei primi anni Venti, quando io

ero piccolissima, la zia emigrò in Merica, a Buenos

Aires, con suo marito. Pier Cesare De Bello, detto

Cesare, che nonostante il nome bello non era davvero



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secondo mia madre, era un uomo di mezza statura,

corporatura robusta e quasi grasso, un naso adunco e

dei favoriti lasciati crescere senza cura, che sfigurava

di fronte alla Matilde, alta, snella e con i lineamenti

decisi ma al contempo delicati, che ne facevano una

vera bellezza. Apparteneva ad una delle famiglie più

ricche della zona che possedeva terreni un po’ in tutta

la vallata, ma lo stesso Cesare aveva mandato in

rovina i suoi e nessuno sapeva bene per quali motivi;

la madre, caduta in disgrazia da un giorno all’altro, era

morta di crepacuore.

Lui, forse per cercare di alleviare il suo tormento e

allontanarsi dal rancore del padre e dei fratelli, aveva

deciso di salpare oltreoceano in cerca di fortuna. Ma

appena qualche mese dopo il loro arrivo, scoppiò

un’epidemia di tifo che uccise Cesare, lasciando la

Matilde sola con mia cugina Maria di un anno ed una

montagna di debiti. Il marito infatti doveva dei soldi

al proprietario di una terra, un piccolo appezzamento

che aveva acquistato promettendo di pagare un po’

per volta. Sperava forse di ricavarne qualcosa

lavorando la terra e coltivandola, però la zia scoprì

che non valeva nulla e l’aridità del terreno era tale da

non permettere a nessun tipo di coltura di attecchire.



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Lei aveva estinto i debiti con il truffatore lavorando

come serva in un’osteria locale. Gli abitanti del

villaggio la chiamavano scherzosamente la “Piedra”, la

Pietra, un modo per definire il suo carattere ostinato,

ed osservavano con curiosità il suo tragitto verso la

locanda, ogni giorno per mano ad una bambina

sempre più magra; se la trascinava dietro non sapendo

a chi affidarla. Prometteva alla figlia, ma in realtà più a

se stessa, di ritornare in Italia, cercando di farsi

coraggio e tirare avanti. Non era semplice. Avevano le

scarpe bucate e vestiti stracciati, ma la zia aveva

rifiutato qualsiasi forma d’aiuto, specialmente quello

di suo padre.

Dopo la morte di Cesare aveva scritto al paese e la

famiglia immaginava in quali condizioni

sopravvivessero madre e figlia. I genitori spedivano

lettere offrendole aiuto, anche a costo di grandi

sacrifici, ma lei rifiutava sempre. Quei rifiuti le

costarono parecchi mesi di lavoro, in un paese che

non amava, ben lontano dalle speranze che erano

state sue e di Cesare.

Solo dopo un anno e mezzo che lavorava

all’osteria riuscì a mettere da parte il danaro per

pagare la traversata via mare. Al paese la gente era



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sorpresa per il suo mancato ritorno dopo la

scomparsa del consorte e pensavano che la Matilde si

fosse già trovata un altro uomo mentre a Buenos

Aires, dove la zia aveva conosciuto diversi amici, la

vedevano partire con un groppo in gola e la

salutavano sventolando fazzoletti sul molo,

ammirando la dignità di quella donna che era stata

capace di farsi forza.

Tornava al paese che aveva lasciato e tutto ciò che

aveva (a parte la vedovanza) stava in una valigia

sbrindellata. Decisa a non gravare su nessuno ed a

conservare la propria indipendenza, la Matilde si mise

alla ricerca di un lavoro e di un posto dove vivere con

la Maria.

“Quando la rividi rimasi di sasso. Si era tagliata i

capelli e portava le braghe. Mi disse che con il tessuto

delle gonne aveva fatto pezze da cucina. Pareva un

uomo” mi raccontava la mamma.

Oggi so che mia madre si sbagliava. La zia somiglia

ad un uomo non per l’aspetto (i capelli corti, che

porta ancora adesso, le donano molto) o



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l’abbigliamento, quanto per gli atteggiamenti sicuri, il

piglio, l’andatura veloce, lo spirito, tutte caratteristiche

più dei maschi che delle femmine. Trovò un impiego

come postina, lavoro che svolge ancora oggi a turno

con un collega, Remo: per fortuna il telegramma che

annunciava la morte di Renzo non l’ ha dovuto

portare lei alla mamma.

Era un lavoraccio, che la costringeva a pedalare

per chilometri in bicicletta per consegnare lettere e

pacchi, con qualsiasi tempo. Gli anni trascorsi in

Argentina però l’avevano resa più forte e non la

spaventava la fatica; con i risparmi comprò una

piccola casetta, lasciando l’abitazione di un’amica che

l’aveva ospitata nei primi tempi. Spaccava la legna,

arava i campi e falciava i prati, era capace di riparare

qualsiasi congegno meccanico, leggeva, s’interessava

di sport e politica, quello che non sapeva fare lo

imparava presto.

Cosa più importante, non aveva più cercato un

uomo, benché i corteggiatori non le mancassero.

Quando la mattina passava in bicicletta per le vie del

paese i giovanotti le urlavano: “C’è posta Matilde?” e

fischiavano in segno d’approvazione. Lei rideva, a

volte si fermava a parlare. Era giovane e bella, quando



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fui più grandicella le chiesi perché non desiderasse

risposarsi. Un giorno che lei e la Maria erano passate a

casa nostra, avrò avuto otto o nove anni, le dissi che

sposandosi di nuovo non avrebbe più dovuto lavorare

tanto. Lei non si scompose, mi venne vicino e,

parlandomi piano come fosse una confessione, mi

confidò che lavorare le piaceva molto. Non riuscivo a

capire come potesse esser contenta di pedalare per

ore sotto la pioggia o di spaccarsi la schiena in lavori

che un uomo poteva svolgere al suo posto. Rimasi

senza parole, la zia rise del mio silenzio e aggiunse che

un lavoro fatto con tutti i crismi dava grande

soddisfazione.

Fino ad allora l’unico modello di donna che

credevo possibile era quello della ragazza che diventa

moglie e madre e si affida in tutto e per tutto alle

decisioni del marito: una come mia madre, insomma.

Le sue parole mi avevano confuso; era l’unica donna

della borgata a vivere sola, in una casa senza un

uomo, e sola aveva allevato la figlia. Molte delle altre,

anche quelle rimaste vedove, si erano maritate con i

primi uomini disponibili per paura di doversi

arrangiare o apparire indecorose. Sapevo che quella

condizione era la causa di molti litigi familiari, perché



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soprattutto suo padre (e mio nonno) la voleva

sistemata e “normale” come le altre.

Io vedevo la vita della zia come un qualcosa di

strano ed allo stesso tempo affascinante e proibito e

non sapevo mai bene se imitarla o, in certi momenti,

specie quando ne sentivo parlare dai miei, compatirla.

Avevo sempre questi pensieri, a volte m’immaginavo

trasformata in un ragazzo per quelle folli idee di

libertà, di una vita mia, con le mie sole forze su cui

contare e non comprendevo perché indossare delle

braghe di fustagno fosse peccato.

Una volta il signor curato, vedendola abbigliata da

maschio, le ricordò che il Signore aveva stabilito che

le donne dovevano indossare vesti e che, se non aveva

più gonne in casa, la perpetua sarebbe stata lieta di

cucirne una per lei. La Matilde scoppiò a ridere come

al suo solito, domandando al signor parroco se per

caso i preti, che indossano la tonaca, fossero in realtà

delle donne.

Quando era da noi, mentre mia madre cucinava lei

leggeva, commentava le notizie del giorno cercando

invano di coinvolgere mio padre. Lui non condivideva

i modi della Matilde, quel rifiuto di “stare al suo

posto” e non di rado cercava di umiliarla, senza



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tuttavia riuscirci, ricordandole che quelle erano robe

da uomini.

Fin dall’inizio, alla zia non è mai piaciuto il Duce e

non ha più cambiato opinione. Una volta acciuffò me

e Renzo mentre, vestiti con la divisa dell’Opera

nazionale Balilla, raggiungevamo il sagrato della chiesa

per gli esercizi ginnici del sabato. Ci spogliò e, dopo

averci rivestiti con altri abiti, ci disse di andare a

giocare, che sicuramente il nostro fisico ne avrebbe

tratto maggiore giovamento.

“Sono due porci, quelli lì. Sono stati capaci solo di

urlare in piazza alla gente sciocca che li applaudiva”

l’ho sentita dire una volta, riferendosi al Duce e

Hitler, dopo un comizio di Mussolini trasmesso per

radio, seguito da Galeazzo “testa di cazzo” Ciano,

come dice lei riprendendo uno sfottò popolare.

Detesta il Duce per molte ragioni, soprattutto per

quello che pensa delle donne, e ripete spesso che lei si

sente tale anche se non ha ricevuto alcuna medaglia al

merito o un premio in danaro durante una cerimonia

pubblica per aver partorito dodici figli per la Patria,

perché non potrà mai riconoscersi nel “Credere,

obbedire, combattere e..partorire!”.



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Castelfondo, 5 settembre1943.

Ho ripreso la solita vita. In questi giorni di

tribolazioni la Lucia ha mandato avanti da sola

l’allevamento, l’orto e la casa, ormai non posso più

approfittare della situazione, benché quella donna non

sembri possedere un minimo di sentimento.

Mi sono svegliata alle cinque per mungere le

vacche (la malga dove di solito stanno in questo

periodo è saltata in aria dopo un bombardamento ed

anche i prati non sono sicuri per via degli ordigni

inesplosi), lei era già in piedi, pronta a darsi da fare.

L’ho salutata e le ho detto di tornare a letto, dopo

tutta la fatica per il lavoro fatto al posto mio, lei ha

risposto che non tutti possono permettersi di battere

la fiacca, che gli animali non devono essere trascurati.

Posso capire la sua stanchezza, ma non la rabbia con

cui mi parla. Dopotutto non mi sono concessa una

vacanza, mio fratello è morto!

“Ogni giorno muore qualcuno in guerra. Se si

fermassero tutti a piangere per i loro morti, chissà

dove andremmo a finire!” ha detto prima di chiudere

la porta della cucina, mentre io restavo lì, incredula,

odiando mio marito che prima di partire per il fronte



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ha voluto sistemare sua madre nella nostra casa, senza

domandarmi niente.

L’avevamo accompagnato alla stazione, io con i

miei, sua madre con altri parenti. Era una mattina

fredda e grigia, il tipico momento in cui viene voglia

di piangere. Intorno a noi, altri soldati abbracciavano

madri, mogli, bambini che forse non avrebbero più

rivisto. I binari erano ingombri di pacchi e zaini su cui

erano appoggiati i cappelli alpini e le mantelle in

dotazione all’esercito.

Piangevano in tanti, mentre gli uomini salivano sul

treno con le loro valige; alcune donne, all’ultimo

momento, quando già i soldati avevano preso posto

negli scompartimenti, si erano avvicinate al finestrino

e avevano consegnato una fotografia nelle mani dei

mariti o fidanzati. Questi, con gli occhi lucidi, le

avevano prese tra le mani, poi riposte con cura nella

tasca della giacca, vicino al cuore. Io non avevo

portato nulla: Carlo non è mai stato tipo da

smancerie. Lo guardavo allontanarsi senza provare la

disperazione di trovarmi da sola per un lungo

periodo.

Da quando ero diventata sua moglie, due anni

prima, era calata un po’ alla volta una sorta di



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freddezza tra noi. Lui si comportava sempre in modo

molto formale, quasi fossi una conoscente e non la

ragazza che aveva sposato, di conseguenza anch’io

avevo perso ogni entusiasmo. Dov’era finito il

ragazzo dei tempi del fidanzamento? Dove le sue

parole, tutte le premure nei miei confronti? La prima

notte di nozze, che avevo sognato per mesi, si era

dimostrata una delusione, ed in seguito tra noi

accadde ben poco. Voleva che lavorassi nella sua

piccola azienda agricola, ma non permetteva che

disponessi di danaro mio, così per ogni spesa ero

costretta a chiedere a lui. Con il matrimonio mi resi

conto ancor di più che quella era la situazione di mia

madre e di quasi tutte le donne che conoscevo, a parte

la zia.

Così, fu quasi con sollievo che salutai Carlo mentre

partiva per la guerra. Andava verso la Russia, in quel

luogo dove, ricordava chi aveva fatto la prima guerra

mondiale, soldati prigionieri e mandati in Siberia, non

si sa bene se gli uomini sono davvero uomini o orsi. I

russi indossavano pelli di lupo per proteggersi dal

freddo e, raccontavano i soldati, le case erano piccole,

fatte di legno o terra, sempre chiuse per non far venir

dentro il vento, tanto da sembrare delle galere.



46

Nonostante questi racconti non provavo alcun

dispiacere per quella partenza né apprensione per ciò

che attendeva Carlo in quel paese, sentivo solo gioia

nel ritrovarmi sola e libera dopo tanto tempo.

Il treno s’era già messo in marcia quando lui,

affacciandosi dal finestrino, gridò forte un saluto e,

prima che il fracasso delle rotaie coprisse le sue

parole, mi disse di non avvilirmi troppo perché la

guerra sarebbe finita presto e nel frattempo sua madre

si sarebbe stabilita alla fattoria. Impietrita, non potei

fare altro che salutarlo a mia volta e fare buon viso a

cattiva sorte. La Lucia, accanto a me, sorrideva

trionfante. Io mi strinsi nel cappotto piena di

tristezza, incapace di rassegnarmi a quella convivenza

forzata.

È passato il tempo ed ogni giorno, appena la vedo,

ho una fitta allo stomaco: c’è qualcosa che me la

rende insopportabile anche fisicamente, troppe volte

ho subito i suoi rimproveri e le maligne osservazioni.

Critica ogni cosa che faccio, dal pranzo alla cura del

bestiame, se metto un vestito diverso mi giudica

vanitosa, controlla ogni mio spostamento, m’interroga

ogni volta che rientro a casa dopo esser stata al paese.



47

Carlo ha combattuto in Russia ma ormai da mesi

gli alpini hanno ripiegato e di lui non abbiamo saputo

nulla fino a quando è giunta una cartolina rovinata,

con le parole macchiate dall’acqua, che c’informava

della sua permanenza in una casa, che lì chiamano

isba, di una famiglia russa, che generosamente l’ha

accolto quando era mezzo congelato dal freddo. Non

sta ancora bene, dice che non sa quando riuscirà a

tornare. Mi scrive delle cartoline prive di qualsiasi

dolcezza, al contrario alla madre non solo scrive più

spesso, ma le invia delle lunghe lettere che lei

nasconde e delle quali non rivela il contenuto. Loro

due si capiscono al volo, lei gli dà ragione anche

quando il torto è evidente.

Mio suocero Ernesto, mancato improvvisamente

l’anno scorso, era una persona molto diversa, affabile

ed allegra, ha trasmesso a Carlo solamente i suoi tratti,

il carattere mio marito l’ha preso tutto dalla Lucia. Se

Ernesto rimproverava il figlio per qualche

manchevolezza o comportamento sbagliato era

immediatamente aggredito dalla moglie e così ogni

volta che tentava di alzare la voce per dire la sua su

Carlo. Sicché poco alla volta aveva lasciato il compito

di allevarlo esclusivamente alla moglie, con il risultato



48

di ritrovarsi con un ragazzo prepotente e superbo,

senza rispetto per gli altri e le loro opinioni. Lei ha

continuato a viziarlo anche da adulto, anche se in

realtà per lui è un rapporto di comodo: Carlo,

nonostante quest’attaccamento alla madre, non ha

stima delle donne, che anzi considera inferiori nel

fisico e nell’intelletto agli uomini, ma grazie

all’appoggio della Lucia (pure una donna) ha sempre

potuto contare su una spalla pronta a sostenerlo.

Se almeno non fossi stata tanto cieca e stupida

prima di legarmi a lui, se il mio amore non avesse

avuto il potere di oscurare gli aspetti più meschini

della sua personalità, adesso forse non mi troverei in

questa situazione. Lui è lontano, dovrei essere triste e

non lo sono, vivo con sua madre e ci detestiamo a

vicenda. Mi sento così vecchia. Che cos’ho fatto in

poco più di vent’anni di vita? Andrà avanti sempre

così, senza una gioia, un entusiasmo, un progetto?

Ogni tanto mi lascio trasportare dalla fantasia,

immagino di abbandonare questa casa e di essere

padrona della mia sorte. Sono sogni che mi aiutano a

fuggire almeno con la testa, ma solo sogni. Sono

molto stanca, oggi la giornata è stata più faticosa del

solito. Nella stalla è nato un vitellino, è stato così



49

strano assistere all’inizio di una nuova vita, mentre la

morte è dappertutto.

È passata la Susanna a dirmi che non si hanno più

notizie di Vittorio Fabbri, un amico di Renzo, come

lui partigiano. Secondo alcune voci è stato ferito e

catturato dai fascisti, per altri da un gruppo di

todeschi. Siamo rimaste d’accordo di non dirlo a casa,

per non dare altre sofferenze alla mamma e al papà.

Mia suocera, indifferente, ha continuato a scaricare il

fieno per le bestie dall’aia alle mangiatoie. Avrei

voluto gridarle che anche lei si metterebbe a frignare,

se succedesse qualcosa al suo Carlo, invece sono stata

zitta, ho seguito con lo sguardo la Susanna che si

allontanava. E avrei voluto andar via con lei.



50

Castelfondo, 17 settembre 1943.

Piove da giorni, una pioggia furiosa che ha

spezzato le piantine dell’orto, spaventato gli animali.

Anche Lampo, il mio cane, se ne sta nella stalla con le

zampette sul muso, drizza le orecchie ogni volta che

sente un tuono. Ieri c’è stato un momento di tregua e

ho lasciato uscire gli animali ma è durato poco e

mezz’ora più tardi s’è scatenato un temporale. Un

fulmine ha colpito il ciliegio che sta davanti all’aia, l’ha

aperto in due ed è partito un incendio che per fortuna

la pioggia ha spento quasi subito; m’è tornato in

mente il melo sul quale si era arrampicato Renzo quel

giorno.

Ho radunato le mucche ed il vitellino, i cavalli e le

galline che stavano fuori nei recinti conducendoli

all’asciutto, poi ho coperto con un telo le piante

dell’orto per cercare di salvarne qualcheduna. La

Lucia, affacciata alla finestra, ha osservato queste

manovre senza aiutarmi. Alla fine, fradicia, sono

rientrata in casa e l’ho trovata accanto al focolare,

immersa nella lettura di una lettera di Carlo, che svelta

ha nascosto nel grembiule appena s’è accorta della

mia presenza. Ho lasciato perdere, ma lei fa di tutto



51

per farmi sentire indesiderata a casa mia. S’è girata,

fissandomi con quegli occhietti piccoli, forse

aspettando una scenata che invece non c’è stata: so

che quei due si scrivono tutto, perciò non ho voluto

darle l’occasione di scrivere a Carlo che sua moglie è

un’isterica. M’è parsa un po’ delusa, dopo ha detto

fingendosi dispiaciuta:

“Temo non riuscirai ad andare a casa tanto

presto”.

Per casa lei intende quella dei miei, si vede che ha

capito quanto odio star qui. Comunque ha ragione, le

strade sono grandi pozze di fango e la pioggia non

sembra cedere, è impensabile andare fino al paese con

un tempo del genere.

Il temporale e la pioggia mi sono sempre piaciuti,

fin da bambina, con quella sensazione di pericolo

improvviso, la necessità di assicurarsi che tutti fossero

al sicuro. Allora la casa era un piacevole rifugio

mentre fuori infuriava la tempesta, leggevo un libro

mentre mia madre scaldava del brodo e il ticchettio

delle gocce sul tetto, ora intenso ora più debole,

produceva una melodia sempre diversa. Era bello

sapere di essere all’asciutto, che anche i cari animali

stavano al riparo nella stalla. Oggi niente è più come



52

allora. Queste mura non mi procurano alcun

conforto, anzi mi imprigionano e il tempo

m’impedisce di fuggire. Anche mentre scrivo, lagrime

argentee scorrono sui vetri delle finestre della camera

da letto; da qualche parte, là fuori, Renzo sta sotto

questa pioggia. Sono certa che pensano a questo

anche i miei genitori perché quando piove è ancora

più difficile accettare la morte e avresti voglia di

afferrare un ombrello e proteggere dall’acqua chi

ormai non può più farlo, anche se può sembrare

stupido, ma in questo caso non si può fare nemmeno

quello.

La Lucia mi ha riferito solo oggi che, in seguito

all’Armistizio proclamato giorni fa, un gruppo di

todeschi alloggia alla pensione all’inizio del paese.

Loro, spregevoli assassini, membri di una razza

infame, qui, accanto a noi, nostri vicini! Dovrei

vendicare Renzo, anche se è impossibile sapere se fra

loro c’è anche il suo carnefice; ad ogni modo per me

sono tutti uguali, farabutti dal primo all’ultimo. Mia

suocera, che sa bene quanto odio nutro per questi

criminali, se mi presentassi armata alla pensione e con

queste intenzioni ne sarebbe certamente contenta:

dietro le sbarre, o meglio ancora morta, non le darei



53

più alcun fastidio. Forse esagero. In realtà, non ho

neppure molto da perdere, mi trattiene solamente la

volontà di non causare altro dolore a chi già soffre

abbastanza.



54

Castelfondo, 19 settembre 1943.

Oggi finalmente è uscito il sole. Intorno alla

fattoria il terreno è ancora tutto fango e c’è molto da

sistemare, ma appena ho aperto gli occhi ed ho visto

la luce, dopo tanti giorni di acqua e vento, sono stata

felice. Nella stalla anche gli animali parevano gioirne,

nei recinti saltavano e scalciavano per uscire fuori. Ho

salutato la Lucia, già nell’orto a strappare le erbacce,

mi ha risposto con un borbottio: si vede che il buon

umore causato dalla schiarita non l’ha toccata.

Volevo chiederle altro sui todeschi alla pensione

per parlare di qualcosa, ma la sua solita freddezza mi

ha fatto cambiare idea. Quanti saranno? Che cosa

vorranno mai da noi? Magari tenteranno di farci del

male, di derubarci, o peggio. Dovremmo forse essere

preparati a difenderci, murare le nostre cose,

procurarci delle armi. Dobbiamo resistere soli,

abbandonati, con i nemici sulla porta. E dire che

anche il re, con tutto il suo danaro, è fuggito con la

sua famiglia dopo l’Armistizio.

Mi pare una cosa strana che alla pensione

accolgano dei nazisti: l’oste e sua moglie son tanto

delle brave persone! Ma credo che non abbiano avuto



55

altra scelta. Sono stata troppo occupata per

raggiungere il paese in cerca di notizie e comunque le

strade sono ridotte ancora male.

Ultimamente penso sempre meno a Carlo, non

sento neppure l’esigenza di sapere che cosa scrive a

sua madre. Sono una cattiva moglie, oppure quello

che ho scambiato per amore non lo era davvero? E se

invece avessi accettato di sposarlo solo per paura di

rimanere sola? Sono sempre più confusa; so solo che

non attendo più con ansia le sue cartoline, non

m’importa di come sta. Questa casa, sua madre e tutto

mi sta troppo stretto. Vorrei avere qualcosa di mio e

non ho nulla. La “nostra” azienda agricola in realtà è

di Carlo, suo il terreno, il danaro, ogni roba. Possibile

che debba dipendere sempre da qualche altra

persona? Domani pomeriggio, con qualsiasi tempo,

andrò dalla Matilde, saprà di certo qualcosa su quei

todeschi. La invidio per la sua autonomia, vorrei

essere come lei.



56

Castelfondo, 19 settembre1943 (notte).

Sono le quattro e mezza di mattina, scrivo con un

pezzetto di lapis seduta al tavolo della cucina, accanto

alla lampada a petrolio perché è mancata la luce, come

succede spesso quando da qualche parte bombardano.

Poco fa, mentre dormivo, la Lucia ha gridato il mio

nome; sono corsa in camera sua, l’ ho trovata a letto

con la febbre alta. Credo sia stato il cambiamento di

temperatura a farle male. Nei prossimi giorni mi

toccherà accudirla e non lasciarla sola. Rinchiusa in

questa casa. Di nuovo. Se non fosse assurdo, penserei

a un suo dispetto.



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Castelfondo, 24 settembre1943.

Stamattina mi sono alzata di malumore. La Lucia è

malata da alcuni giorni. Il dottore è passato due volte

da quando è in queste condizioni, ha detto che tra

poco starà meglio, che questo tempo strano ha messo

a letto altre persone in paese. Dopo averla visitata,

mentre metteva via i suoi strumenti nella valigetta,

m’ha domandato come sto. Gli ho risposto bene ma

non è rimasto convinto e prima di salire sul suo

biroccino per tornare al paese mi ha fatto promettere

di passare a farmi vedere da lui, che gli sembro

dimagrita e bianca come un lenzuolo. Ho promesso,

ma non ci andrò. Non ha una medicina per darmi un

po’ di felicità, per alleviare il peso che mi porto dietro

giorno e notte.

L’ho salutato e, rimasta sola, sono corsa in camera

e senza più riuscire a trattenermi ho preso a

singhiozzare, piano per non farmi sentire da mia

suocera. Non che a lei importi, sono io che non

voglio mostrarmi debole. Devo piangere piano, ed è

difficile perché le lagrime mi scoppiano dentro.

Non ho avuto un attimo di pace dopo la morte di

Renzo, i miei problemi sembrano non finire mai: non



58

faccio a tempo a finire un lavoro che subito devo

sbrigarne un altro, la Lucia ha sempre da ridire anche

adesso che sta male. L’allevamento richiede

un’attenzione continua e portare avanti tutto da sola è

un’impresa, avrei bisogno di qualcheduno per un

aiuto, ma non ho il danaro necessario per pagare altre

braccia. Avevo pensato alla Susanna, ma ha già il suo

bel da fare aiutando in questo periodo il papà al forno

e la mamma a casa.

Ci sono le vacche da mungere, il piccolo gregge di

pecore da portare a brucare nei prati ancora verdi

accanto alla fattoria, dove non c’è pericolo per loro, e

da tosare, i conigli d’angora da pettinare (devo tener

da parte la lana per fare maglie e calze per l’inverno) le

galline da controllare, i cavalli che hanno bisogno di

un nuovo recinto, le patate da raccogliere e le assi

degli steccati rovinati da cambiare. È un lavoro duro

che m’impegna per gran parte della giornata, il tempo

rimanente lo devo utilizzare per riordinare la casa, far

da mangiare (anche se non tocco quasi cibo) accudire

mia suocera, dalla quale non ho mai ricevuto neppure

un grazie e che con le sue lagne sembra sia stata

colpita da tutte le sventure di questo mondo.



59

Vorrei poter parlare con qualcuno, ma con chi?

Carlo non c’è, ed anche se fosse qui non capirebbe.

La fattoria è isolata e non ci sono vicini con cui

sfogarsi o almeno per fare due parole, la mia famiglia

sembra essersi dimenticata di me, eppure sanno che

sono relegata in questa casa e non posso muovermi.

Forse sono un’egoista a pretendere qualcosa da

loro, specialmente dopo quello che è successo, ma ne

ho così bisogno; mi basterebbero una parola o un

sorriso. Eppure tutto questo per me non esiste,

sembra che nessuno si renda conto della mia

solitudine, mi credono felice e contenta con un marito

lontano (ed intendo anche quando è presente) ed una

donna autoritaria sempre insoddisfatta, soprattutto di

me. Devo ammettere che anch’io so fingere

abbastanza bene in presenza di altri, per conservare le

apparenze spesso nego, perfino a me stessa, la paura

più grande, quella di aver sbagliato tutto nella mia vita

e di non poter più tornare indietro, come una nave in

mezzo al mare, in balia delle onde, che sogna di essere

ancora ormeggiata al porto. Lampo mi ha seguito per

tutto il giorno, scodinzolando al mio fianco. A volte

credo sia l’unico in grado di capirmi.



60

Castelfondo, 26 settembre 1943.

La Lucia è quasi guarita ed oggi s’è alzata, perciò

sono riuscita a fuggire da questo posto per un po’.

Quali meravigliose sensazioni può dare l’aria

fresca del mattino ad una ragazza costretta in casa

fino al giorno prima! Tutto appariva nuovo, le piccole

gocce di rugiada sugli steli dei fiori di campo, la

distesa di prati dorati dal sole, mossi dal vento, un

uccellino che, cinguettando, volava rapido nel cielo.

Mi sono incamminata verso il paese per alcune

commissioni, decisa a fermarmi da mia madre.

Nelle botteghe non si trova quasi più niente e quel

poco che c’è costa l’ira di Dio: con la tessera, lo

zucchero si paga ormai quaranta lire al chilo. C’è un

mercato clandestino nel casale abbandonato dove una

volta c’erano le scuole, si trovano salsa di pomodoro,

biscotti, spezie, sigarette, tutto a prezzi triplicati

rispetto a quanto valgono. Ringrazio il Signore per

avere di che sfamare me stessa e la mia famiglia grazie

agli animali della fattoria. Chi non ha neppure una

gallina per le uova, non può permettersi di comprare

nulla e muore di fame.



61

Dopo la spesa ho raggiunto le vie tanto familiari,

con nostalgia dei tempi in cui vivevo qui e queste

strade e viuzze mi portavano all’unica casa che allora

conoscevo. Ho incontrato mia madre mentre tornava

dopo aver fatto il bucato alla fontana, con un mastello

di panni bagnati sotto braccio. Anche lei è dimagrita

e due rughe mai viste prima adesso le segnano il

volto.

È stata contenta di vedermi, l’ ho seguita sull’aia

dove appende sempre i panni ad asciugare, aiutandola

con le mollette: prima della guerra, ammucchiate in un

angolo le pannocchie messe a maturare, su quell’aia

noi giovani ballavamo mentre sonava un

grammofono. D’improvviso guardandola prendere i

vestiti uno per volta dalla mastella mi è parsa tanto

invecchiata, così stanca del dolore patito che le ho

chiesto subito come stava e anche notizie del papà e

della Susanna. Ha detto:

“Tiriamo avanti. Cerchiamo di non pensare per

non dar di matto”.

Mio padre non fa che lavorare e oltretutto il forno

non funziona bene. La mamma deve aver notato

come stavo di spirito perché ha domandato come

andava alla fattoria; alla fine le ho confidato tutta la



62

mia solitudine in quella casa e con quella gente, ho

detto che speravo almeno in una visita della Susanna;

lei s’è stupita di quelle parole, solo quando si è

avvicinata di più ho visto che adesso ha al collo un

medaglione con la fotografia di Renzo. M’ha risposto

che hanno avuto altro da pensare e che ormai questa è

la mia vita. A suo dire, con la Lucia basta portar

pazienza e sopportare, s’è detta anche convinta che

Carlo tornerà sano e salvo dalla Russia e che

accomoderemo ogni cosa, specie dopo la nascita di

quel bambino che ancora non ho avuto. Sono rimasta

di stucco. Come può rimproverarmi di non aspettare

un figlio da un uomo che non so neppure se amo

ancora, se l’ho mai veramente amato? Non posso

credere che lo consideri un modo per tener legato un

uomo, per risolvere una situazione matrimoniale in

crisi. Magari anche io o i miei fratelli siamo serviti a

questo scopo. Chissà se anche mia madre, in fondo, è

mai stata realmente felice.

Sulla strada del ritorno ho incrociato la zia

Matilde, mi ha invitato a casa sua domani. “Io da

quella megera non ci vengo” ha detto ridendo,

riferendosi alla Lucia. Abbiamo riso insieme, la sua



63

franchezza mi ha scaldato il cuore. Sarebbe bello se

mia madre fosse lei.



64

Castelfondo, 8 ottobre 1943.

Ho visto i todeschi. Erano in cinque, stavano in

gruppo, fuori dalla pensione. Scherzavano fra loro,

ridevano. Dove troverà il coraggio di ridere questa

gente che combatte per un uomo matto patocco, per

ordine del quale chissà quanti sono già morti, e quanti

moriranno ancora, se questa guerra non finirà presto?

Dovevo passare davanti a loro per raggiungere la

casa della zia, dalla quale vado spesso in questo

periodo. Quanto ho aspettato un’occasione simile,

quante volte ho immaginato di trovarmi di fronte a

dei soldati todeschi e sparare, ucciderne qualcheduno:

la voglia di vendetta, dal giorno della morte di mio

fratello, non mi ha mai abbandonato. Sparare così, a

caso? Certo, come fanno loro con noialtri nei

rastrellamenti, mettendo al muro la gente che per

disgrazia passa da quella via o quella piazza e non ha

colpe. Quanto avrei voluto farlo, stamattina, se solo

avessi avuto una rivoltella, e invece non avevo niente.

Sono andata avanti, camminando velocemente

con lo sguardo fiero rivolto in alto fingendo di non

accorgermi d’altre presenze. A metà tragitto uno del

gruppo, un ragazzone biondo che avevo notato per



65

primo, m’ha visto e con altri dei suoi compagni ha

iniziato a fischiare nella mia direzione. Sono

avvampata. Come osano, questi maledetti, questi

vigliacchi? Solo uno stava in disparte senza

partecipare, quasi vergognandosi del comportamento

degli altri. La strada era lastricata di pietre, sarebbe

bastato prenderne qualcuna e colpirli, ma a che

scopo? Farsi uccidere per aver tirato dei sassi a dei

todeschi che fischiano non appena vedono una

sottana? Sarebbe stata una fine molto stupida.

Così ho lasciato perdere questi propositi e ho

tirato dritto con una tale rabbia, ma una rabbia, che

quando la zia ha aperto la porta mi ha fissato a lungo,

preoccupata e divertita allo stesso tempo.

“E così ti hanno fischiato dietro” ha detto quasi

ridendo una volta sentito il mio racconto. Poi, seria,

ha detto che bisogna stare attenti, perché quelli dopo

l’Armistizio ci tengono d’occhio e hanno paura di

qualche rivolta, le ho detto di averne visto solo

cinque, ma subito mi sono resa conto dell’assurdità

delle mie parole. Ovviamente alla pensione e nei

dintorni dovevano essercene altri, tanti di più.

Per un po’ abbiamo cambiato argomento, le ho

parlato della vita alla fattoria, del consiglio della



66

mamma sull’avere figli. Lei ha scosso la testa, ha detto

che mia madre ragiona come una donna del

Settecento.

Alla Matilde Carlo non è mai piaciuto: il giorno

dello sposalizio per non vedermi uscire dalla Chiesa a

braccetto con mio marito e non sentire i frizzi dei

parenti, ha pedalato tutta la giornata per la valle con la

bicicletta da postina ed è tornata solo all’imbrunire.

Me lo raccontò in seguito la Maria, domandandomi

scusa per l’assenza della madre. Erano venuti tutti in

Chiesa e poi a casa di mio padre a mangiare polenta e

crauti, perfino lo speziale, che di solito non lascia la

bottega per nessun motivo e la Nora, la levatrice del

paese, che mi sorrideva quasi tenessi già una creatura

nella pancia, ma la zia no, non c’era. Allora ebbi un

dispiacere, oggi non me ne importa neanche più. La

zia m’ ha detto di non farmi venire in mente di fare

un figlio se Carlo torna perché allora sì che sarei

legata a quell’uomo per sempre. Ha ragione. M’ha

confessato d’aver concepito la Maria per sbaglio,

costretta dai suoi a sposarsi dopo essersi oramai

compromessa e di aver cominciato a volerle bene solo

dopo la morte di Cesare, quando con la Maria rimase

per più di un anno a Buenos Aires. Prima di allora la



67

vedeva come il motivo che la obbligava a stare

insieme a quell’uomo (che in Italia aveva deciso di

lasciare, ma poi s’era scoperta in attesa) poi, ritrovata

la libertà che le era stata forzatamente strappata, l’odio

verso la bambina s’era trasformato in amore. La Maria

non sa nulla dei sentimenti di sua madre che, pur

amandola, non capisce ancora come quella possa

essere sua figlia.

“Va tutti i giorni a messa, pensa un po’. Dice che

prega per la mia anima” ha detto ghignando. “Sta ore

e ore in camera sua a pensare, a dire il rosario. L’altro

inverno ha finito questa coperta di lana, vuole che

impari anch’io a ricamare questi ghirigori” ha

continuato, mostrandomela. “Io, che prendo in mano

ago e filo solo per cucire un bottone, che vado in

chiesa sì e no tre volte l’anno!”.

Sono tanto diverse che nessuno le scambierebbe

per madre e figlia: la Maria, tanto pia e seria, pare

quasi la madre di sua madre. Scherzando la Matilde ha

detto che ci dovrebbe essere uno scambio di figlie tra

lei e mia madre; sa anche lei quanto ci assomigliamo,

anche se la mia forza di carattere è più debole della

sua. Le ho detto che con quei modi da suorina la

Maria è tale e quale a mia madre, sempre fedele ai



68

dogmi religiosi che non oserebbe mai mettere in

discussione. Prima che me ne andassi m’ha messo

sottobraccio il giornale di oggi, ed alcuni libri da

leggere. Vuole che mi crei degli interessi, che conosca

quello che accade nel mondo.

Non volevo tornare alla fattoria prima di aver

parlato ancora della storia dei todeschi e di una

possibile rivolta in paese. Chissà se accadrà davvero

qualcosa; la Matilde dice che molta gente crede ancora

nel fascismo della Rsi, ma anche che tanti sono stufi

di vivere nel timore di una nuova dittatura e in

un’Italia occupata dai nazisti dove non si può parlare

e scrivere senza la paura di essere arrestati.

Si vedrà, non so che cosa augurarmi. Da una parte

spero che la gente si organizzi sul serio, dall’altra so

che sarebbe un disastro perché i paesani sono

contadini e allevatori, gente alla buona che quasi non

sa tirare di schioppo e per di più dicono che anche i

partigiani sono lontani. Quando ho parlato così la

Matilde mi ha guardato come volesse dire qualcosa. In

quel preciso momento è entrata la Maria e vedendo

che stavo andando via ha insistito per accompagnarmi

per un pezzo di strada, ho dovuto salutare la zia

lasciando tutto in sospeso.



69

Certe volte ho l’impressione che la Matilde

nasconda un segreto, che sappia molto di più di ciò

che dice. Dovrò tornare ancora sull’argomento.

Più tardi, mentre camminavo verso casa è

successo un fatto curioso. Dove inizia la campagna ho

incontrato ancora il gruppo dei todeschi che

aspettavano, seduti sul furgone, il ragazzone biondo.

Poco più in là l’ho visto armeggiare con i pantaloni,

impigliati in un filo spinato che recinta delle

coltivazioni. Nella fretta di rispondere al richiamo

della natura, non s’è accorto di essersi appoggiato al

filo, s’è alzato ed alla fine ha fatto uno strappo alle

braghe della divisa. Cercava di coprirsi in qualche

modo, ma era talmente goffo da risultare, devo

ammetterlo, molto buffo. Sono passata a lato del

furgone e girandomi ho fischiato verso di lui, che s’è

bloccato di colpo con le braghe in mano, vergognoso.

Gli altri ridevano, gridavano al ragazzo biondo frasi di

scherno. Il soldato che la mattina non aveva fischiato

stava ancora un po’ in disparte, mi ha guardato un

attimo ed ho visto che sorrideva.



70

Castelfondo, 12 ottobre 1943.

L’altra notte ha piovuto di nuovo. Un temporale

improvviso e breve, giunto dopo una giornata di sole,

che per fortuna non ha fatto danni. Ero addormentata

da poco quando il primo tuono mi ha fatto sobbalzare

dal letto per lo spavento.

Ormai sveglia, sono rimasta a lungo a pensare,

mentre fuori cadeva una pioggia rabbiosa che però ha

perso velocemente d’intensità. Il temporale è come

un’emozione, violenta all’inizio, carica d’energia e

pronta ad esplodere, la cui forza diminuisce in un

momento. Lo sguardo di quel soldato mi perseguita,

uno sguardo così diverso dalle facce arroganti dei suoi

compagni. M’è venuta una voglia inspiegabile di

fermarmi, quel giorno, avvicinarmi a lui e raccontagli

quanto ci si può sentire soli anche in mezzo agli altri,

perché quello era lo sguardo di chi conosce bene la

solitudine. Dopo la scomparsa di Renzo, ogni volta

che pensavo ad un todesco lo immaginavo come quel

ragazzo biondo ed i suoi commilitoni, pieni di boria,

così sicuri di sé e dell’ideologia per cui combattono;

non ero preparata a vedere qualcuno tanto differente.

Soprattutto, com’è possibile che abbia pensato di



71

rivolgere la parola ad un todesco dopo quanto è

successo a mio fratello per causa loro? Non è una

roba per bene eppure sento il desiderio di ripercorrere

quella strada, di rivederlo anche solo per un istante,

per riprovare la sensazione di sentirmi ancora viva

dopo tanto tempo. Probabilmente lui farebbe finta di

non avermi visto, io passerei come se niente fosse..o

no? So che non dovrei neppure pensare di parlare con

un uomo, specialmente ora che Carlo è lontano ed in

più considerata la sua nazionalità, ma che cosa posso

farci? Prima di tutto è un todesco. Poi, è ancora un

todesco: continuo a ripetermelo ma non serve a

niente. Ad ogni modo ho anche paura, perché se mi

fossi sbagliata a crederlo diverso, se fosse tale e quale

ai suoi compagni, per me sarebbe una grande

delusione. Non resta che scoprirlo, se si presenterà di

nuovo l’occasione.